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Un viaggio nell’Artsakh, avamposto millenario degli armeni

​Lunghi rami ancora neri si stagliano e si intrecciano nudi (eppure da vicino minimi spruzzi di verde cominciano ad apparire). Le eleganti strutture dell’acero e del bagolaro compongono oggi sul cielo azzurrissimo una sagoma di aerea cattedrale. Ma qui scoppierà in pochi giorni la fioritura di primavera.
A fine marzo nel Caucaso profondo è ancora inverno, anche se nelle fitte foreste e sui brevi altopiani innevati le linfe sotterranee scorrono e la natura già freme per la rinascita. E tuttavia a fine marzo tutto sembra ancora chiuso nella densa cupezza invernale.
Nella mia mente si affollano sparsi ricordi, ma piano piano emerge la memoria della lunghissima, faticosa strada che – diversi anni fa – scorreva piena di buche polverose attraverso paesaggi abbandonati, povere case ex-sovietiche, piccoli orti e tanti fitti alberi oscuri, verso una meta misteriosa – quel­l’Armenia di alta montagna che non avevo mai conosciuto, il “Giardino Nero” dell’Art­sakh. Dopo quattro ore di viaggio, ci fu la sosta in una locanda dall’aria casuale e un po’ selvatica, in una stanzetta spoglia, dove tre donne corsero fuori dalla cucina asciugandosi le mani sui vecchi grembiuli che le infagottavano per stringermi, e poi abbracciarmi, baciarmi e farmi scomparire nelle loro grandi braccia affettuose.
Per loro ero l’eroina che finalmente era riuscita a “fare il film”: cioè a raccontare per il grande pubblico il genocidio muto, quello di cui per settant’anni non si era potuto parlare. Finalmente anche gli armeni potevano far vedere in televisione, rendere “reale” per la massa degli spettatori quel­l’immensa tragedia; c’era uno spettacolo – non solo le parole – che li rappresentava.
Invano cercai di spiegare che io avevo scritto il testo, non girato il film; invano ricorsi al traduttore che era con noi perché parlasse dei fratelli Taviani. Lui rideva scuotendo la testa: «Lasciale fare – disse – ti porteranno un pilaf meraviglioso, anzi, più di uno!», come infatti avvenne poco dopo, in una solenne processione di tutta la famiglia. Piatti di pilaf con la pastina abbrustolita, con le erbette selvatiche, con le uova sode sminuzzate, coi piccoli fagioli scuri, ornavano la tavola in un tripudio di colori leggeri, invitanti, sazianti.
Nelle altre ore di viaggio fiancheggiammo un ruscello fresco e mormorante, bordato di piccole fioriture, mentre le montagne intorno si facevano più aspre e selvagge, nere di alberi immensi. Mucche dall’aria indipendente attraversavano la strada con lentezza imperiosa, e lo scarso traffico si fermava con calma.
E poi avvenne la scoperta che ha irradiato di luce speciale quei giorni: il sorriso aperto, accogliente, sapiente di Christina che ci attendeva, ristoratore, all’arrivo nella piccola, vivace capitale di Stepanakert. Christina è la prima signora della repubblica dell’Artsakh, una forte mamma armena. Ha un carattere solare ed estroverso, sa pesare le parole e infondere fiducia e coraggio. Ammiro la sua forza e l’ho amata soprattutto nel momento terribile della “guerra dei 40 giorni” che, nel 2020, ha devastato la sua terra. Appena dichiarata la tregua e sospese le ostilità, è tornata a casa, nel paese ferito, come quasi tutto il suo popolo di montanari ostinati, aggrappati a quel piccolo avamposto da migliaia di anni. E là, impavida, piange solo in segreto.